La solitudine di Van Gogh è anche un po' la nostra




Il film del 2018 su Van Gogh mi ha colpito molto a livello emotivo e profondamente commosso perchè ho sentito tutta l'intima e profonda solitudine del pittore e soprattutto dell'uomo, il suo forte bisogno di essere amato, riconosciuto, fondamentalmente visto come essere umano, nelle sue fragilità, vulnerabilità estreme. 

Ho sentito ed empatizzato con  questo suo bisogno così istintuale di essere parte della natura, di essere dentro al paesaggio, ai fiori, ai campi che ritraeva, tanto da sottoporre il suo fisico, già così duramente provato dall'inedia, a lunghissime escursioni per le colline e le montagne della Provenza dove ha condotto l'ultimo periodo della sua vita, così travagliata.  
Credo che sia per questi motivi che i suoi quadri siano così tanto amati, e le mostre a lui dedicate siano sempre meta di una sorta di pellegrinaggio artistico, ma anche sentiti in modo così coinvolgente  dagli appassionati d'arte, e non solo, come se le sue pennellate così materiche, i suoi colori straordinariamente intensi ci parlassero, avessero il potere di connetterci a lui. 
Traspare sicuramente da queste mie parole quanto io lo ami come pittore e quanto sia forte anche l'intensità delle emozioni che mi suscita nel poter vedere le sue opere dal vivo. 
Ricordo ancora l'emozione e la commozione che ho provato quando due anni fa sono andata a visitare l'ospedale/manicomio di  Saint Remy de Provence, in cui si può vedere la stanza in cui era ricoverato, il giardino e i famosissimi iris che aveva dipinto durante i suoi ricoveri. Era come calarsi dentro i suoi quadri.
La sua storia così particolare (ha cominciato a dipingere all'età di 27 anni e in soli 10 anni ha composto quasi mille opere), la sua estrema sensibilità, questo suo modo così assoluto di vivere la natura, così ben rappresentata nel film, il bisogno quasi parossistico di creare che l'ha portato a distaccarsi dalla realtà, come è accaduto a tanti artisti, il fatto che sia stato trattato come una sorta di reietto ad Arles, dove si era rifugiato in cerca di pace e dove poi è morto, dalla maggior parte dei suoi abitanti che lo consideravano uno straniero in tutti i sensi, nel senso di estraneo a loro, ce lo fanno sentire estremamente vicino, come appunto se la sua solitudine così profonda fosse un po' anche la nostra. 
La paura del diverso da noi, del non conosciuto può far scatenare infatti un forte odio, rabbia, come se ci sentissimo attaccati e il nostro senso di sicurezza potesse essere minato. 
Se infatti Vincent fosse riuscito a trovare in Provenza un po' di conforto, se si fosse sentito accettato e non deriso, umiliato, ridicolizzato, ma apprezzato ed amato (a parte dall'adorato fratello Theo) , come poi è accaduto solo dopo la sua morte, la sua salute mentale non sarebbe stata seriamente compromessa, come invece poi è accaduto.

A proposito del percepirsi ed essere percepiti diversi il grandissimo Willem Dafoe, che lo interpreta magistralmente, ad un certo punto nel film dice : "Dentro di me c'è qualcosa, non so cosa sia...vedo ciò che gli altri non vedono!"

Nel film un altro elemento fondamentale è la bellissima fotografia con la sua potenza evocativa da cui ci si lascia ammaliare: la luce abbagliante dei paesaggi, delle albe, quei colori così caldi, i famosi gialli di Van Gogh, proprio come nei suoi bellissimi quadri. 

Commenti

  1. Mi sono commossa. È un pittore al quale sono molto legata da sempre, ho visto il film e conosco bene le sue opere. Condivido con lui, con le dovute differenze, la dimensione di una forma di malessere che ancora oggi fa paura. Il malessere mentale ci rende stranieri, ci fa parlare lingue che neanche noi conoscevano prima e ci ritroviamo spesso chiusi nell'incomunicabilità e nella solitudine, ma anche nell'emarginazione. Tutto questo perché quel malessere è diverso dagli altri del corpo e diventiamo noi stessi dei diversi. Per fortuna si può uscirne e ci sono persone che non smettono mai di tenderci la mano e volerci bene. Grazie.

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